Durante alcuni esperimenti due psicologi dell'Università di Toronto, Michael Inzlicht e Alexa Tullett, hanno registrato l'attività cerebrale di un gruppo di persone analizzando le onde cerebrali associate a un particolare tipo di stress, che insorge quando si commettono degli errori. Gli scienziati hanno così verificato che, quando i partecipanti al test pensavano a Dio o in generale alla religione, sia consciamente che inconsciamente, reagivano meglio all'errore. Al contrario, negli atei, indotti a pensare a Dio, aumentava l'attività cerebrale 'spia' di stress da errore. Lo psicologo Inzlicht spiega ad Andkronos: «Pensare alla religione regala calma quando si è sotto pressione. Rende meno stressati quando si fanno degli errori. Nel mondo l'85% delle persone ha un sentimento religioso. Questo studio può aiutarci a capire qualcosa di realmente interessante su chi ha fede e sugli effetti 'terapeutici' della preghiera». Lo scienziato continua: «Esistono alcune evidenze scientifiche secondo cui le persone religiose vivono più a lungo e tendono a essere più sane e più felici».
Ma improvvisarsi devoti senza crederci davvero non paga: l''effetto camomilla' della preghiera, infatti, non vale per gli atei. Qualche giorno fa la rivista americana “Liver Transplantation” ha mostrato che il livello di sopravvivenza in caso di malattia è maggiore in quelli in cui il fenomeno “religiosità” è presente in maniera attiva, cioè coloro che si affidano a Dio, hanno fede in Lui e cercano di percepire la Sua volontà anche nella malattia (vedi Ultimissima 18/8/10).
Ritorna alla mente la famosa scommessa di Pascal: "se Dio esiste, si ottiene la salvezza. Se ci sbagliamo, si è vissuto un'esistenza lieta rispetto alla consapevolezza di finire in polvere". Spesso gli atei di fronte ai numeri crescenti dei credenti rispondono che è meglio la "qualità" della "quantità". Eppure, oggi, anche la psicologia dimostra questa "esistenza lieta" dei credenti al contrario degli atei, e la scommessa del celebre scienziato non può che amplificarsi e provocare maggiormente.
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Ma improvvisarsi devoti senza crederci davvero non paga: l''effetto camomilla' della preghiera, infatti, non vale per gli atei. Qualche giorno fa la rivista americana “Liver Transplantation” ha mostrato che il livello di sopravvivenza in caso di malattia è maggiore in quelli in cui il fenomeno “religiosità” è presente in maniera attiva, cioè coloro che si affidano a Dio, hanno fede in Lui e cercano di percepire la Sua volontà anche nella malattia (vedi Ultimissima 18/8/10).
Ritorna alla mente la famosa scommessa di Pascal: "se Dio esiste, si ottiene la salvezza. Se ci sbagliamo, si è vissuto un'esistenza lieta rispetto alla consapevolezza di finire in polvere". Spesso gli atei di fronte ai numeri crescenti dei credenti rispondono che è meglio la "qualità" della "quantità". Eppure, oggi, anche la psicologia dimostra questa "esistenza lieta" dei credenti al contrario degli atei, e la scommessa del celebre scienziato non può che amplificarsi e provocare maggiormente.
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